Sanità, survey Fadoi: 58% reparti di Medicina interna in overbooking

Sanità, survey Fadoi: 58% reparti di Medicina interna in overbooking

Roma, 10 mag. (askanews) – I reparti di Medicina interna dei nostri ospedali sono quelli che assistono quasi la metà dei ricoverati, in particolare anziani e cronici con comorbilità. Pazienti che necessitano di cure sempre più complesse, che richiederebbero adeguate dotazioni di letti e personale. Ma oltre la metà delle medicine interne è attualmente in overbooking e l’85,6% denuncia carenze oramai croniche di personale. Questo mentre circa un terzo dei ricoveri potrebbe essere evitato con una migliore presa in carico dei servizi sanitari territoriali e se solo si facesse un po’ più di prevenzione. Sono questi i dati salienti della survey condotta da Fadoi, la Federazione dei medici internisti ospedalieri, su 216 unità operative sparse in tutte le regioni italiane.

Il 58% dei reparti con un tasso di occupazione dei posti letto oltre il 100%.

Nelle Medicine interne si può dire che la sottoutilizzazione dei posti letto sia un fenomeno inesistente, visto che appena lo 0,46% delle unità operative ha un tasso di utilizzo inferiore al 50% e lo 0,93% tra il 51 e il 71%. Ma mentre il 40,28% dei reparti occupa tra il 70 e il 100% dei letti a disposizione, il 58,33% va appunto in “overbooking”, con oltre il 100% dei letti occupati. Ciò significa poi avere pazienti assistiti perfino su una lettiga in corridoio, con un solo separé a garantire la privacy. Ad acuire il tutto c’è poi la carenza di personale, riscontrata nell’85,65% dei casi.

Pochi letti, ancor meno personale, ma la situazione potrebbe essere un po’ più gestibile se si potessero evitare i ricoveri impropri, quelli frutto di una difficoltà di presa in carico dei servizi territoriali, basati su servizi di assistenza domiciliare, reparti di post acuzie e lungo degenza, ma in larga parte sulla rete dei medici di famiglia, anche loro sempre meno numerosi, con un numero elevato di pazienti da dover seguire e gravati sempre più da un enorme e spesso inutile carico burocratico.

Mediamente un ricovero su quattro potrebbe essere evitato con una rete di assistenza territoriale più adeguata. Nel 32,87% dei reparti i letti che si sarebbero potuti liberare sono tra il 10 e il 20% del totale, nel 37% dei casi tra il 21 e il 30%, mentre nel 18,98% dei reparti si sarebbero potuti evitare tra il 31 e il 40% dei ricoveri con una migliore presa in carico del territorio. Percentuale che sale a oltre il 40% nel 6,02% delle unità operative, collocate soprattutto al Sud.

Discorso analogo per la mancata prevenzione. Stili di vita scorretti, bassa aderenza agli screening, scarse coperture vaccinali, unite al più basso finanziamento pubblico d’Europa per la prevenzione, fatto è che a causa di tutto ciò almeno un quarto degli assistiti finisce in ospedale, quando avrebbe potuto evitarlo. Nel 35,19% dei reparti tra l’11 e il 20% dei ricoveri sono dovuti alla poca prevenzione; percentuale che sale tra il 21 e il 30% nel 30% delle unità operative, mentre si sta tra il 31 e il 40% nel 19,44% dei casi e oltre il 40% nell’8,80% dei reparti.

La riforma della sanità territoriale ancora arranca ma pazienti meno soli dopo le dimissioni.

Se su quel che precede e dovrebbe evitare molti ricoveri la nostra sanità ancora arranca, altrettanto non si può dire per chi viene dimesso. Qui la percentuale di chi va a casa ma con l’assistenza domiciliare integrata attivata è salita al 43,98%, mentre il 26,85% va in Rsa e il 21,30% in qualche struttura assistenziale intermedia. Solo il 7,87% si ritrova nel proprio letto ma senza servizi di presa in carico, né da parte del territorio, né dell’ospedale.

Mix di speranza e scetticismo sulle nuove case e ospedali di comunità.

Quanto complessivamente la riforma della sanità territoriale, che stenta a decollare, possa migliorare le cose lo racconta la seconda parte dell’indagine, dalla quale emerge un mix di speranza e scetticismo rispetto all’operatività delle nuove strutture che dovranno aprire i battenti entro il giugno 2026 per non perdere i due miliardi del Pnrr stanziati proprio per questi servizi. Fulcro della riforma dovrebbero essere le Case di Comunità, sorta di maxi-ambulatori dove dovrebbero lavorare in team medici di famiglia, specialisti ambulatoriali delle Asl e altri professionisti della salute. Strutture dove, oltre ad essere visitati, gli assistiti dovrebbero poter eseguire anche accertamenti diagnostici di primo livello, come ECG o ecografie. Per il 72,22% dei medici le nuove Case di Comunità potranno effettivamente ridurre il numero dei ricoveri, “ma bisognerà vedere come verranno realizzate”. Stessa risposta fornita dal 72,69% dei medici rispetto agli ospedali di comunità a gestione infermieristica, ai quali spetterebbe il compito di agevolare le dimissioni dai reparti, prendendo in carico quei pazienti che non hanno più bisogno dell’ospedale vero e proprio, ma che nemmeno sono nelle condizioni di tornare a casa. Per il 20,37% degli interpellati, invece, nessun beneficio arriverà dalle Case di Comunità, così come non vede miglioramenti all’orizzonte derivanti dagli Ospedali di Comunità il 12,04% dei medici. Fermo restando che per il 32,87% tra l’11 e il 20% dei ricoveri potrebbe essere dimesso più rapidamente con queste nuove strutture intermedie ben funzionanti. Percentuale che sale tra il 21 e il 30% per il 33,33% degli interpellati, mentre per il 24,54% potrebbero lasciare più rapidamente il reparto oltre il 30% dei pazienti.

Tra sovraffolamento e carenza di personale a rimetterci è la ricerca.

Tra sovraffollamento dei reparti e carenze di organico, non ci si deve infine stupire se il 48,61% degli internisti dichiara di non trovare più tempo per fare ricerca, mentre il 43,06% ne fa meno di quanto vorrebbe.

“La situazione sempre più critica nei quali si trovano ad operare i reparti di medicina interna, strategici per tutto il sistema di assistenza ospedaliero, dipende non da ultimo dalla errata classificazione dei nostri reparti come a bassa, anziché medio-alta intensità di cura”, spiega il Presidente di Fadoi, Francesco Dentali. “Questo – aggiunge – si traduce in una minore dotazione di personale e strumentazioni diagnostiche che mandano sempre più in affanno le medicine interne dove pure vengono ricoverati pazienti anziani e sempre più complessi, che in alcuni casi richiedono persino un livello di assistenza pre-intensiva, che facciamo miracoli ad assicurare in queste condizioni”.

“Comprendo lo scetticismo dei miei colleghi riguardo la possibilità che la riforma della sanità territoriale riesca da un lato a porre un freno ai ricoveri impropri e a favorire le dimissioni in strutture intermedie dei pazienti fragili che oggi occupano impropriamente i posti letto per un totale di oltre due milioni di giornate di degenza evitabili”, afferma a sua volta, citando una precedente indagine della stessa federazione, il Presidente della Fondazione Fadoi, Dario Manfellotto. “Le perplessità – prosegue – non nascono tanto dalla conformazione di Case e Ospedali di Comunità, ma soprattutto dalle difficoltà di reperire personale medico e infermieristico. E purtroppo mentre sembra ancora mancare del tutto una regia che garantisca il collegamento tra le nuove strutture e l’ospedale, che non può essere realizzata con fantomatiche strutture o “centrali” territoriali che alcune Regioni stanno attivando, ma che rischiano di creare ulteriore burocrazia”.

“Dispiace – conclude il presidente eletto di Fadoi, Andrea Montagnani – osservare come quasi la metà degli internisti non riesca a dedicare neanche un minuto all’attività di ricerca, mentre la quasi totalità degli altri riesce a dedicarvi meno tempo di quanto vorrebbe. Questo significa penalizzare la crescita professionale dei nostri medici ma anche e soprattutto l’attività di ricerca, che proprio per la varietà e complessità dei pazienti trattati ha sempre trovato terreno fertile di sviluppo nei reparti di Medicina interna. E fare ricerca, è bene ricordarlo, giova in primo luogo ai pazienti, perché dove si fa sperimentazione clinica più rapido è anche l’accesso alle nuove terapie e migliore la formazione dei medici che dovranno poi utilizzarle”.

“Perché dove si fa ricerca migliora anche la qualità dell’assistenza”, conclude il Presidente Dentali.

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