Mostre, alla Galleria Borghese Rubens e lo sguardo sulla scultura a Roma

Mostre, alla Galleria Borghese Rubens e lo sguardo sulla scultura a Roma

Esposte 50 opere del pittore fiammingo fino al 18 febbraio

Roma, 13 nov. (askanews) – Rubens come Pigmalione. Come il mitico scultore ottenne da Venere il dono della vita per una statua che aveva realizzato e di cui si era innamorato, così il maestro fiammingo, che conobbe e studiò profondamente l’Italia e la sua arte, ebbe la capacità di trasformare nei suoi disegni e nelle sue tavole l’inerte marmo antico in vibrante materia pittorica e di rendere vivi i protagonisti delle sue opere.

Dal 14 novemnre al 18 febbraio 2024 con la mostra ‘Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma’, a cura di Francesca Cappelletti e Lucia Simonato, la Galleria Borghese inaugura la seconda tappa di ‘Rubens. La nascita di una pittura europea’, un grande progetto realizzato in collaborazione con Fondazione Palazzo Te e Palazzo Ducale di Mantova che racconta i rapporti tra la cultura italiana e l’Europa attraverso gli occhi del Maestro della pittura barocca, e si inserisce anche in una più ampia ricerca della Galleria dedicata ai momenti in cui Roma è stata, all’inizio del Seicento, una città cosmopolita.

Un dialogo, quello tra i capolavori del colto pittore di Anversa e quelli della Galleria, fatto di intensa tensione. Un raffronto diretto con quelle opere che a Roma, città con cui Rubens ebbe un rapporto privilegiato, il maestro studiò: la statuaria antica, Michelangelo, Bernini, Caravaggio.

Con 50 opere provenienti dai più importanti musei al mondo – tra cui il British Museum, il Louvre, il Met, la Morgan Library, la National Gallery di Londra, la National Gallery di Washington, il Prado, il Rijksmusem di Amsterdam, solo per citare alcuni – la mostra è divisa in 8 sezioni. Sottolinea il contributo straordinario di Rubens, alle soglie del Barocco, a una nuova concezione dell’antico e dei concetti di naturale e di imitazione, mettendo a fuoco la novità dirompente del suo stile.

“Calamita per gli artisti del Nord Europa fin dal Cinquecento, la Roma di Rubens, fra i pontificati Aldobrandini e Borghese, è il luogo dove studiare ancora l’antico, di cui si cominciano a conoscere i capolavori della pittura, con il ritrovamento nel 1601 delle Nozze Aldobrandini”, sottolinea Francesca Cappelletti, direttrice Galleria Borghese e curatrice della mostra. “È il momento della Galleria Farnese di Annibale Carracci e della cappella Contarelli di Caravaggio, di cui si stordisce una generazione. Attraverso gli occhi di un giovane pittore straniero come Peter Paul Rubens guardiamo ancora una volta all’esperienza dell’altrove, cerchiamo di ricostruire il ruolo del collezionismo, e della collezione Borghese in particolare, come motore del nuovo linguaggio del naturalismo europeo, che unisce le ricerche di pittori e scultori nei primi decenni del secolo”, aggiunge Cappelletti.

Questo processo di animazione dell’antico, per quanto eseguito nel primo decennio del secolo, sembra anticipare le mosse di artisti che, nei decenni successivi al suo passaggio romano, verranno definiti barocchi. Come le intuizioni formali e iconografiche di Rubens filtrino nel ricco e variegato mondo romano degli anni Venti del Seicento è un problema che non è stato ancora affrontato in modo sistematico dagli studi.

La presenza in città di pittori e scultori che si erano formati con lui ad Anversa, come Van Dyck e Georg Petel, o che erano entrati in contatto con le sue opere nel corso della formazione, come Duquesnoy e Sandrart, garantì di certo l’accessibilità dei suoi modelli a una generazione di artisti italiani ormai abituati a confrontarsi con l’Antico alla luce dei contemporanei esempi pittorici e sulla base di un rinnovato studio della Natura. Tra tutti, Bernini: i suoi gruppi borghesiani, realizzati negli anni Venti, rileggono celebri statue antiche, come l’Apollo del Belvedere, per donare loro movimento e traducono in carne il marmo, come avviene nel Ratto di Proserpina.

“In questa sfida tra le due arti, Rubens dovette apparire a Bernini come il campione di un linguaggio pittorico estremo, con cui confrontarsi: per lo studio intenso della natura e per la raffigurazione del moto e dei ‘cavalli in levade’ suggeriti dalla grafica vinciana, che sarebbero stati affrontati anche dallo scultore napoletano nei suoi marmi senili con la stessa leonardesca ‘furia del pennello’ riconosciuta da Bellori al maestro di Anversa; infine anche per i suoi ritratti, dove l’effigiato cerca il dialogo con lo spettatore, proprio come accadrà nei busti di Bernini per i quali è stata coniata la felice espressione di speaking likeness”, afferma Lucia Simonato, curatrice della mostra.

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