
Luigi Moio: no all’omologazione, il vino rimanga cultura e territorio
Milano, 23 lug. (askanews) – Luigi Moio è ordinario di Enologia all’Università degli Studi di Napoli Federico II ed è vicepresidente dell’Organizzazione internazionale della vigna e del vino (Oiv), prestigiosa istituzione scientifica intergovernativa di cui è stato presidente dal 2021 al 2024. Riconosciuto come uno dei massimi esperti del mondo vitivinicolo, askanews lo ha incontrato a ‘VinoVip al Forte’, dove ha ricevuto il Premio Pino Khail per la valorizzazione del vino italiano, promosso dalla storica rivista ‘Civiltà del bere’.
Moio considera il vino ‘un progetto agricolo’ che va approcciato scientificamente con una predisposizione alla sperimentazione, nella convinzione che la qualità e lo stile si programmino prima di tutto in vigna, partendo dal rispetto del territorio e della sintonia tra pianta, suolo e clima, e cioè la vocazionalità. Produttore di vino in Irpinia con la sua Cantina Quintodecimo (Aglianico, Fiano, Greco e Falanghina), Moio è convinto che nella comunicazione attuale l’enfasi sulle tecniche di produzione del vino abbia di fatto soppiantato l’importanza del terroir. ‘Negli ultimi trent’anni, molti sono entrati nel mondo del vino e questo ha aumentato la domanda, grazie anche al grande lavoro di tutte le associazioni che hanno diffuso la cultura del vino. Ma una crescita incontrollata genera confusione e la confusione genera panico, disorientamento: sono nati troppi modi di fare vino e sono state messe in discussione perfino le basi pasteuriane, fino ad arrivare a considerare un difetto sensoriale un segno di tipicità’ racconta, spiegando che ‘per me però un difetto sensoriale è sempre un’omologazione e il vino ha esercitato fascino grazie alla sua diversità che deve venire dal luogo di produzione, dalla vigna, dall’annata: tutto questo rischia di perdersi, anche per colpa degli stili. Per me non esistono stili: il vino deve essere semplicemente espressione della vigna. È un prodotto mono-ingrediente, il grappolo, se perfetto, ha tutto in equilibrio. Certo – precisa – oggi conosciamo meglio i processi, possiamo guidarli ma la confusione che si è creata negli ultimi anni ha creato somiglianze verso il basso’.
Come pensa che sarà il vino fra altri trent’anni? ‘Penso che sarà come l’abbiamo sempre conosciuto, non può che essere che questo: se diventa un’altra cosa non è più vino’. Ma quanto può influire il cambiamento climatico? ‘Il cambiamento climatico favorisce il processo di omologazione a cui facevo riferimento prima. Con l’aumento delle temperature e la carenza d’acqua si anticipa lo sviluppo e le uve diventano più mature, meno acide. La surmaturazione è un altro processo omologante: c’è un annullamento della diversità che bisogna assolutamente evitare attraverso la scienza, la sperimentazione, le conoscenze tecniche’ racconta, ricordando che ‘negli anni ’30, ’40, ’50 sono state fatte selezioni clonali che privilegiavano varietà che accumulavano più zucchero. Oggi bisogna fare il contrario: selezionare varietà che accumulano zucchero più lentamente, che hanno cicli di maturazione più lunghi. In questo l’Italia è fortunata, perché le nostre varietà storiche, in tutte le regioni, sono a ciclo lungo. Anche il Primitivo, il più precoce, è comunque più lento rispetto ad altri vitigni internazionali. Le varietà a ciclo lungo hanno un vantaggio perché resistono meglio ai processi di degradazione degli acidi dell’uva dovuti all’eccessivo calore ed ai lunghi periodi di insolazione. Il problema – evidenzia il professore nato a Mondragone 65 anni fa – non è spostare le vigne ma continuare a produrre grandi vini negli areali più prestigiosi, come Bordeaux, Piemonte, Toscana, Borgogna: non possiamo pensare a un futuro senza questi luoghi. La dislocazione non è la sola soluzione’.
Però negli ultimi anni il vino si produce anche in nuove latitudini. ‘In Inghilterra si sta già producendo un ottimo vino, simile allo champagne, e si continuerà a salire verso Nord. In Svezia qualcuno ha già iniziato. E poi si salirà in altezza, nei Disciplinari fino a 800-900 metri, certe varietà possono essere rese più plastiche. Il vino si produrrà un po’ ovunque, dimostrando la sua universalità, non temo questa diffusione’ riflette Moio, uomo di scienza ma anche super tifoso del Napoli, evocando quando ‘trent’anni fa si diceva: ‘Questo vitigno è nostro, non può essere piantato altrove’, ma la diffusione ne consacra il valore. Lo Chardonnay, il Merlot, il Cabernet sono diventati grandi proprio perché si sono diffusi in tutto il mondo. Di certo però – ribadisce – non possiamo pensare che il futuro prossimo del vino sia senza gli areali storici che hanno dato fascino e prestigio alla viticoltura’.
I Piwi, i vitigni resistenti alle malattie fungine, possono essere una delle possibili soluzioni? ‘Sono una valida strategia, certo. Con le nuove tecniche genetiche si possono accorciare i tempi di selezione ma i tempi di sperimentazione restano lunghi, anche nei diversi areali. Il comportamento del vitigno può cambiare in base all’ambiente. Serve un protocollo comune di verifica nei differenti areali, perché se non si sperimenta in vari contesti, anche in questo caso, c’è il rischio di una omologazione sensoriale’.
Quali sono le soluzioni da mettere in campo e come opera l’Oiv? ‘Oggi i temi del cambiamento climatico, del riscaldamento, della sostenibilità ambientale richiedono strategie a basso impatto e servono competenze di enologia, agronomia, pedologia, idraulica, climatologia’ spiega Moio, sottolineando che ‘si devono creare reti di uomini di scienza e l’Oiv mette insieme un gruppo di esperti di più di mille persone provenienti non solo dai Paesi membri. Si discutono problematiche scientifiche che poi ogni laboratorio approfondisce secondo le proprie esperienze, fino a produrre rapporti scientifici finali che, dopo un lungo confronto ed approfondite discussioni, diventano risoluzioni disponibili per tutti gli Stati. Una risoluzione – conclude – può richiedere anche dieci anni di lavoro, come ad esempio quella sulla definizione di ‘terroir’: ogni parola viene pesata, è un lavoro lento, di diplomazia scientifica, in cui ogni ricercatore controlla l’altro, e questo garantisce risoluzioni finali estremamente corrette’.
Qual è l’aspetto che la preoccupa di più per il futuro del vino? Il calo dei consumi, il presunto scarso interesse da parte delle giovani generazioni, la pressione salutista? ‘No, la perdita della cultura del vino’ replica sicuro Moio, indicando come ‘in Paesi come l’Italia, la Francia, la Spagna siamo nati nelle vigne, abbiamo avuto una formazione e una trasmissione generazionale di valori. Il vino è cultura, è vettore di cultura e la sua storia va tramandata. Prima c’era il rito: la bottiglia portata dall’amico che spiegava cos’era quel vino, da dove veniva, poi il tappo che fa ‘pop’, il bicchiere, l’attesa. Anche solo annusare, si imparava anche così. E questo si sta perdendo – rimarca – oggi questi momenti in famiglia sono sempre più rari. E questo è un errore: bisognerebbe istruire i giovani, con responsabilità. La trasmissione culturale è fondamentale, il vino non può cambiare: deve essere buono, fatto bene, rispettando la vigna, l’ambiente ed i suoi equilibri’.
Il rovescio della medaglia è però anche quello della sovrapproduzione: nelle Cantine italiane c’è il corrispettivo di una intera vendemmia invenduto. ‘Sì, è davvero troppo. Bisogna riequilibrare domanda e offerta, eventualmente anche con l’espianto. Si è piantato dove non si doveva, dimenticando la vocazionalità: il principio base dell’interazione tra pianta e ambiente. Ogni pianta deve stare al posto giusto: le arance vengono buone in Sicilia, i limoni in Costiera. Non possiamo piantare la buganvillea in alta montagna’ risponde, proseguendo che ‘se vogliamo un’agricoltura sostenibile, dobbiamo riconsiderare attentamente l’interazione genotipo-ambiente adattandola anche ad una bassa pressione dei patogeni. Questo è il primo criterio della sostenibilità. E servono conoscenze scientifiche e buon senso, non superficialità’. (Alessandro Pestalozza)