Almeno 15 siriani uccisi in Sudan. Emergency resta aperta con quattro strutture
Franco Masini: il peggio deve ancora venire. Il timore riguarda le bande armate fuori controllo in cerca di soldi
Roma, 27 apr. (askanews) – Almeno 15 cittadini siriani sono stati uccisi durante scontri armati tra forze rivali in Sudan, ha confermato Bish al Shaar, l’incaricato d’affari dell’ambasciata siriana a Khartoum.
Il ministero degli Esteri siriano ha affermato in precedenza che l’Arabia Saudita, la Giordania e l’Algeria hanno fornito assistenza per l’evacuazione dei cittadini siriani dal Sudan che desideravano lasciare il paese.
“Finora, 15 siriani sono stati vittime degli scontri a Khartoum. Non ci sono informazioni sui feriti. Tutti i membri della missione diplomatica stanno bene”, ha detto al Shaar all’emittente siriana Sham FM. Il diplomatico siriano ha spiegato che l’ambasciata, su indicazione del ministero degli Esteri del Paese, ha registrato dall’inizio degli scontri i cittadini che desiderano rientrare in patria. Ha notato che circa 30.000 siriani vivono nel territorio del Sudan. Gli scontri tra l’esercito regolare sudanese e le forze paramilitari sono scoppiati il 15 aprile dopo un lungo periodo di crescenti tensioni all’interno dell’esercito. Il numero delle persone uccise negli scontri ha raggiunto quota 459 e almeno altre 4.072 sono rimaste ferite, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità.
“Emergency ha quattro strutture attive in Sudan: oltre al Salam Centre” a Khartoum, “c’è un ambulatorio pediatrico in un campo profughi disastrato vicino Khartoum che ospita un milione di persone, a Maio ma abbiamo dovuto chiuderlo subito perché non era più sicuro né raggiungibile; poi si sono altri due ospedali pediatrici, a Port Sudan sul Mar Rosso e a Nyala, nel Darfur. A pieno regime è uno staff importante, 50 internazionali e circa 550 locali”. Lo afferma in un’intervista al Manifesto, Franco Masini, il medico a capo della missione di Emergency nel Paese. “Il problema è stato fin dall’inizio l’organizzazione del personale locale, una buona parte non poteva tornare a casa e così abbiamo creato una specie di accampamento dentro l’ospedale, con materassi dappertutto”, precisa. “Molti altri era impossibile andarli a prendere. Però sono loro che ci stanno dando un grande supporto e ci hanno chiesto di non chiudere, perché l’ospedale è fondamentale. Solo ieri abbiamo avuto tre casi che se non ci fossimo stati sarebbero finiti male. Ma visto che abbiamo ridotto il numero dei pazienti e che permangono rischi nello stare qui, ieri abbiamo lasciato la scelta di restare o partire ai singoli. Siamo rimasti in sette qui a Khartoum, tutti italiani, più una decina di internazionali tra Port Sudan e Nyala. Gli altri ora sono in viaggio verso la Germania”, spiega Masini.
“Il timore”, ora, “riguarda le bande armate fuori controllo in cerca di soldi e bottini”, precisa ancora Masini. “Dal nostro responsabile della sicurezza sappiamo di irruzioni e razzie in alcune strutture del centro. È un corollario tipico in questi frangenti. E il disastro come sempre arriverà dopo, se e quando questa roba finirà: quelli che non hanno fatto i controlli né la terapia, quelli che non hanno potuto raggiungerci… Riorganizzare il lavoro sarà dura, peggio che dopo la pandemia. È una guerra questa”, conclude.